mercoledì 16 novembre 2011

Con le mani nei capelli. Con le nuvole negli occhi.


Dicono che fuori faccia freddo, che sia arrivato l’inverno. Io ci credo, immagino il gelo sulla pelle, le labbra tagliate, il viso screpolato. Due giorni che non esco di casa e sembra una vita intera. Ansia, pianti, mal di stomaco, nausea. Tutto passa. Tutto. Passa. Passa in un attimo, con il sorriso inaspettato di uno sconosciuto, con una parola gentile, con un messaggio da incidere nel cuore, che tanto siamo la generazione degli sms e non ci posso far nulla.
E io intanto disegno, disegno ed era troppo tempo che non prendevo in mano un matita. Disegno me stessa in mille modi, che ognuno a modo suo è un po’ egocentrico-narcisista e io una Reflex non ce l’ho. Allora disegno. E ogni tanto mi piace anche quello che esce fuori, sempre perché sono un’egocentrica-narcisista.
Oggi non ho paralato con nessuno. Ho comunicato, che è diverso, ma non ho sentito la voce di nessuno, al di fuori di mia madre e della tizia del reparto di chirurgia vascolare che mi ha chiamata per sapere se mio zio si ricordasse che domani alle 8 deve presentarsi in ospedale. Mi domando perché non abbia telefonato a lui.
Mio zio in questo caso è il fratello di mia nonna. Si chiama S. e vive nel paese in cui sono cresciuta, a pochi chilometri da Novara, ma quasi mi sembra di non conoscerlo. E’ una sensazione che provo nei confronti di tutta (o quasi) la mia famiglia. Ci telefoniamo una volta al mese, ci facciamo gli auguri di Natale, ci dimentichiamo dei rispettivi compleanni, fingiamo di volerci bene, punto. Punto.
Tutto ciò mi ha sempre messo tristezza, fin da quando ero bambina e la mia famiglia mi sembrava così diversa dalle famiglie dei film, quelli che fanno a Natale, dove tutti sono bellissimi e felici. Io mi sento un po’ come Colin Firth in Love Actually (dio, quanto l’ho amato quel film), che passa il Natale in famiglia solo per abitudine, per tradizione o per convenzione, chiamatela come volete, con i nipotini che appena lo vedono dicono: “Io lo odio lo zio Jamie”, e poi decide di partire e di mandare tutti a quel paese. Ecco, io mi sento un po’ come lo zio Jamie, non perché parta mandando tutti a quel paese (anche se a volte vorrei tanto poterlo fare), neanche perché tutti mi odino (o almeno spero), semplicemente perché mi sento inutile, superflua, non partecipo alla gioia comune, non interagisco durante i discorsi degli “adulti” perché mi sento ancora bambina e quindi non autorizzata a prender parte alle discussioni serie dei grandi.
Ma al Natale manca ancora più di un mese, quindi lasciamolo da parte, anche se io non riesco a ricordare cosa avessi intenzione di raccontare quando ho iniziato a scrivere. Che poi a dire il vero non c’è mai nulla di preciso che io voglia raccontare, tutto nasce da singole frasi e poi, il resto, si articola, prende vita intorno ad esse. Ma io sono caotica in tutto e non posso farci nulla.
Forse è perché io, il caos che domina l’esistenza, lo avverto costantemente e ne divento parte in ogni istante, con ogni atomo del mio corpo, con la confusione di ogni mio pensiero. Sarà così.
E ho in mente una frase bellissima, ma la terrò da parte per la prossima volta, la renderò perfetta, le ricamerò intorno parole appropriate e darò vita a qualcosa che ancora non conosco.

Intanto ci sarà il mare.

Intanto c’è L.

Intanto ci sono tutti gli altri.

Intanto ci sono io.

Con le mani nei capelli.

Con le nuvole negli occhi.

lunedì 7 novembre 2011

La geometria perfetta di notti senza fine

Piove da 5 giorni. Senza tregua. 
L’aria grigia avvolge tutto e scorrono via i volti, le vite, le città. Che la giovinezza è sentirsi soli e poi correre verso il mare come Antoine Doinel. Il gioco sta nel trovare il proprio mare. Le braccia spalancate, i corpi caldi, i letti disfatti, le stanze tiepide, che spazzano via i sorrisi tristi.
Un anno e mezzo e io ho dimenticato i cuscini bagnati e il sangue che scorre. Senza rancore. Senza amarezza. È scivolato tutto, via lontano, in una notte d’agosto. La notte dei pianti e degli abbracci senza fine. Sei agosto. Cinque persone. Quattro amanti. Tre vite. Due corpi. Una casa. Confusione. 
Amicizie interrotte. Anime spezzate. Anime ricostruite. Storie raccontate.
Momenti che bruciano e che non si possono, non si vogliono dimenticare, perché dal dolore prende vita la bellezza. Il dolore vissuto, che resta dentro, rannicchiato in fondo al cuore, crea la meraviglia di due vite che si incontrano, due passati che si avvicinano, due futuri che si uniscono. E restano gli altri, un po’ sconfitti e un po’ ignari spettatori di spettacoli meravigliosi e incomprensibili. È la retorica della bellezza, la grandiosità del caos, che non genera mostri, ma esseri perfetti, che hanno percorso sentieri affini e che finalmente si incontrano, all’infinito, come rette parallele. La geometria dell’esistenza. Il sonno eterno del mal di vivere.

Questa non è l'America

Uscire di casa senza sciarpa, quando fuori fa freddo, mi fa sentire vulnerabile. Dentro una sciarpa mi posso riparare dal gelo, ma mi posso anche un po’ nascondere.
Uscire di casa senza sciarpa fa iniziare male le mie giornate.
Il tutto peggiora quando arrivo in stazione e scopro che il mio treno è in ritardo di 60 (sessanta!) minuti. 60 minuti che mi separano da te, che mi stai aspettando avvolto in un cappotto che non ho mai visto, con i tuoi sorrisi e una sciarpa che hai portato apposta per me e che mi fa sentire invincibile.
Poi ci sono la pioggia, il vento, Artissima  e un mondo nuovo, da scoprire, per noi due.
Mi sento serena e lo notano tutti, anche la psicanalista che si commuove a vedermi così. Sono tanto serena che non mi interessano più le persone che, alla fine, la mia attenzione non la meritano.
Le guerre telematiche sono infantili e non hanno senso, lo dici anche tu, per quanto certe persone abbiano ferito chi amo e vorrei proteggere con tutta me stessa.
Sono patetica.
Forse.
Sono immatura.
Non ho mai affermato il contrario.
Sono felice.
Senza dubbio.
E’ l’una di notte e vago per la stanza con gli stivali nuovi, che fanno un rumore meraviglioso. Io scelgo le scarpe in base al rumore che fanno quando cammino. Forse è un modo tutto mio per farmi notare, che poi non ne ho bisogno, perché le attenzioni di chi mi interessa le ho già.
Domattina mi alzerò presto, che ho promesso ai miei di andare sul Monferrato con loro. La collina mi da un senso di pace. Ascolterò i Mumford and Sons durante il viaggio, che non esiste colonna sonora migliore.
Dovrei anche mandarti il messaggio della buonanotte, anche se sei con i tuoi amici, mentre io i miei li ho già salutati da un pezzo, ponendo fine troppo presto a una bella serata.
E piove.
Piove.
Piove.
Ed è bello in un modo strano.
Portami a vivere in un posto dove piova sempre e possiamo passare le nostre giornate sotto le coperte senza far nulla, che le mostre d’arte, i libri e la musica ce li inventiamo noi e non abbiamo bisogno di nulla.
Quando siamo insieme siamo stupidi perché stiamo bene e per un po’ possiamo dimenticare il dolore. Possiamo riderne. Possiamo scherzare senza pensare a ciò che fa male, perché, quando sono con te, niente fa male veramente.
Le stazioni le odio, che i binari nascondono sempre milioni di lacrime e i treni portano con sè gli addii. E quando arrivo a Novara e inizio a scorgere in successione unieuro-stadio-carrefour-viamarconi-sottopassaggio, non so mai se son contenta di essere finalmente a casa o se invece vorrei tornare indietro, sperando che ad aspettarmi ci sia ancora una volta tu.
D’altronde questa non è l’America.

sabato 29 ottobre 2011

innamoramento

[in-na-mo-ra-mén-to]
s.m.
L’innamorarsi, l’essere innamorato.




Se qualcuno mi chiedesse quante volte nella mia vita io mi sia innamorata, mi verrebbe da rispondere: “Tre”. Numero piuttosto esiguo per una ventenne, soprattutto considerando che due volte su tre i miei sentimenti non erano corrisposti, ma vabbè, questa è un’altra storia e ne ho già scritto sin troppo.
La differenza tra innamoramento e amore sono in pochi a coglierla e non la noti finché non ti trovi dinnanzi ai fatti e non ti rendi conto di quanto dire “ti amo” sia immensamente più difficile di dire “sono innamorata/o di te”. Io l’ho provata sulla mia pelle, dunque posso affermarlo con estrema certezza.
L’innamoramento, non l’amore, che è tutt’altra cosa e del quale non voglio parlare, ti fa provare emozioni incredibili, in positivo e in negativo. Tutte le volte pensi che mai più nella vita una sola persona potrà renderti felice e farti soffrire in modo così viscerale.
Poi i sentimenti cambiano, le persone pure. L’oggetto  delle tue passioni ti delude, ti stufi di passare le tue nottate a piangere sul cuscino e anche l’innamoramento passa. A questo punto subentra una forma di disgusto nei confronti della persona che in un passato fin troppo recente catalizzava le nostre attenzioni e ci si comincia a domandare come si abbia potuto perdere il proprio tempo con una simile persona. Inutile negare, ci siam passati tutti. Credo che si tratti solo di un banalissimo meccanismo inconscio di autodifesa che la nostra psiche mette in atto per inibire il dolore.
Il tempo passa e dopo un po’, in alcuni casi un bel po’, ci si rende conto che il sentimento provato non era altro che un surrogato dell’amore.  Allora ci si sente stupidi, ci si sente falsi e orribili, per non aver capito che tutto quanto era solo un nostro capriccio, per esserci accontenti di ciò che ci si è presentato davanti ed esserci autoconvinti  che quello fosse amore.
Non odiatevi troppo per questo, capite i vostri errori e imparate da essi. Imparate a non innamorarvi più. Imparate ad amare, ad amare più di quanto abbiate già fatto in passato, ad amare meglio. Imparate che non si ama mai due volte nello stesso modo, ma ogni volta si provano sentimenti diversi e sarà sempre bello, sarà sempre come una prima volta, nel bene e nel male.
Sono stata più retorica di quanto avrei voluto essere, ma tutto ciò era per dire che probabilmente il tuo blog non lo leggerò e alla fine sto bene così.

mercoledì 26 ottobre 2011

Leonard Cohen, l'insonnia e il calendario dell'avvento


Che sia un fatto positivo l’aver sempre sonno, può sembrar paradossale, ma se per vent’anni hai passato gran parte delle tue nottate con gli occhi sbarrati e mille pensieri per la testa, la situazione cambia leggermente. I motivi di questo radicale cambiamento potrebbero essere molteplici, ma in realtà tutto si riduce al fatto che finalmente io mi senta bene, senza dubbi, senza riserve.
Mi viene in mente Leonard Cohen , il quale, quando gli fu domandato se credesse nella vita dopo la morte, rispose seccamente di credere fermamente in QUESTA vita. - Do you believe in a life after this one?-,                                                      - I hardly believe in this one-, che in inglese rende meglio. Per la prima volta capisco cosa intendesse dire, io che nella vita alla fine non ci ho mai creduto.
Questi miei flussi di pensieri non hanno senso e me ne rendo conto, solo che penso sempre che vorrei scrivere di più, che vorrei scrivere meglio e l’allenamento, anche nella scrittura, è buona cosa. Forse dovrei portare con me tutti i giorni un quaderno, in modo da appuntarne sopra i pensieri. Che non voglio essere meno di nessuno, meno di una tal persona soprattutto. Dovrei anche imparare a non usare più l’espressione “Che poi”, dal momento che, per quanto mi piaccia, alla fine non mi appartiene.
Sulla parete laterale dell’armadio, quella che da verso il letto, ho appeso le fotografie delle persone a cui voglio bene, i disegni delle mie cuginette e un promemoria della psicologa. Tutto ciò mi fa sentire in qualche modo protetta ed è una bella sensazione.
Oggi è stata una giornata che vorrei definire bella, ma odio essere banale, quindi mi limiterò a dire che quando sono tornata a casa ho trovato sulla poltrona della sala il calendario dell’avvento che mia madre mi aveva appena comperato. Che ho 20 anni e manca più di un mese a dicembre lo so anch’io, ma fa sempre piacere ricordarsi di essere stati bambini e che, in fondo, un po’ lo si è ancora.
Forse dovrei finirla di scrivere sempre di quanto io sia felice, di quanto io stia bene e blablabla, ma il mondo e il web, in particolare, sono talmente pieni di depressi o pseudo tali, che magari lancio una nuova moda, o semplicemente posso ricordare alla gente che si può vivere anche senza piangere tutto il giorno e senza progettare in continuazione il proprio suicidio. Poi un giorno depressa potrei tornarlo anch’io e allora tutte le orde di altri depressi o pseudo tali mi potranno dire che avevano ragione loro e che io della vita non ho capito proprio niente e, in tal caso, sarebbero anche autorizzati a farlo. Io intanto mi godo il momento e va benissimo così.

martedì 25 ottobre 2011

La prima pioggia autunnale batte contro i vetri delle finestre di palazzo nuovo e mi sento come se questo giorno lo stessi aspettando da un anno intero. Il fumo che esce dalla bocca non è più quello della sigaretta e tutto sembra essere meraviglioso, come il cappuccino al bar della stazione per combattere il freddo. La lezione di informatica non ho voglia di seguirla e aspetto che arrivi qualcuno a salvarmi dalla noia. Che vorrei fumare, ma fuori fa troppo freddo e non ho voglia di aprire l’ombrello. Che dovrei rispondere ai messaggi di mille persone, ma mi sento in colpa per non averlo fatto prima, anche se non avevo soldi. Il libro di sociologia non arriverà mai e io giovedì avevo intenzione di iniziare a studiare, che un altro anno come quello appena passato non credo di poterlo sopportare. E mi chiedo perché le persone taglino i ponti in continuazione con me e perché non possano essere felici per me, che felice lo sono forse per la prima volta nella mia vita. Che poi probabilmente son solo paranoie le mie e forse quelle persone non mi interessavano neanche così tanto, ma il distacco in qualche modo fa sempre male. E in questo momento vorrei essere al mare, che il mare in autunno è qualcosa di stupendo e, con lui al mio fianco, sarà ancora più bello. E poi passare le giornate sotto le coperte calde, con i corpi nudi che si stringono in un abbraccio sempre più forte. E tornare a casa e raccontare tutto con le lacrime agli occhi ai pochi amici con i quali vorrei condividere tutto. E la vita forse non è sempre così crudele e la felicità esiste veramente e le persone che mi circondano sono meravigliose e io sto bene veramente.

mercoledì 21 settembre 2011

Amicizia, istruzioni per l'uso

L'amicizia la devi saper coltivare, un po' come i gerani che crescono sul balcone, può nascere ovunque, ma devi trattarla con cura, che se no appassisce. La devi concimare con gli abbracci e i baci sulla fronte.
 Devi innaffiarla tutti i giorni di parole e sorrisi, ma le soddisfazioni che ti darà saranno nettamente superiori all'impegno messo per farla crescere. 
Ci sono persone che entrano con violenza nella tua vita, dissestando un po' i tuoi equilibri e dopo un po' ti accorgi di non poter più fare a meno della loro presenza e vorresti non dover mai smettere di ringraziarle per aver sconvolto la tua esistenza in modo così straordinario.
Sono tante le cose che impari, con il tempo, su questo bizzarro sentimento, se così si può definire, che è l'amicizia. Come i difetti, ai quali finisci per affezionarti e impari a vedere come piccoli vezzi. Come il fatto che le difficoltà non facciano altro che fortificare i sentimenti. Come io e te, sedute su un balcone a piangere e a raccontarci quello che ancora non sapevamo di noi, mentre tutti gli altri dentro ridevano e non potevano capire.  Che io ti voglio bene non lo dico mai, ma quando lo dico, lo faccio col cuore. E lo faccio anche adesso, che vorrei farti capire che non devi più piangere, perché ti meriti di più, perché ti meriti di meglio, che vorrei che tu il male non lo dovessi mai conoscere. Gli amici servono a questo, sono una tettoia che ti ripara dalle cose che fanno male e io la tua tettoia vorrei esserlo sempre e vorrei che tu sempre lo fossi per me, che come abbracci tu non lo sa fare nessuno. 
Le stagioni passano e le persone se ne vanno, ma chiunque ci siamo lasciati indietro non era altro che un elemento trascurabile nelle nostre vite, mentre chi è importante rimane, senza bisogno di scuse, di spiegazioni o di parole inutili. Rimane e basta. Agganciato, nel nostro petto, nelle parole di una canzone, nella frase di un libro, in un ricordo che non sbiadisce mai. Il resto passa e si dimentica in fretta. Si dimentica il dolore, si dimentica il tradimento, si dimenticano le lacrime, che scivolano sul viso e non tornano più. 

 Dedicato a G.

martedì 20 settembre 2011

L'amore a vent'anni pt.II

Son giorni di bellezza, pura e delicata, che quasi non sembra vera. Che avere vent'anni non è poi così brutto, con i tuoi sorrisi e le parole che si sprecano come le foglie che in autunno cadono dagli alberi. E io che pensavo di non potermi innamorare più e tu che sei come un papavero con lo stelo altissimo, ma talmente delicato che devo proteggerti da ogni soffio di vento. E adesso è autunno e settembre non è poi così feroce, le lacrime non cadono e le vene non sanguinano più, che quando appoggi le labbra sui miei polsi, cuci tutte le ferite, che anche se non sono bellissima e particolarmente intelligente, quando sono con te mi sento perfetta e divento parte anch'io della meraviglia che ci circonda.

mercoledì 14 settembre 2011


Gli attacchi di panico e quelli di pianto e tu che non ci sei e io che non so più chi sono.

lunedì 12 settembre 2011

Ci sono nottate in cui tutto quanto sembra essere perfetto e anche l’insonnia mi si rivela amica. 
Questa notte per esempio ho scoperto che le 4 del mattino sono il mio momento preferito della giornata e io mi sento come la luna, ancora alta nel cielo, ma già circondata dall’alone luminoso delle prime ore della giornata. Sul balcone fumo la prima sigaretta di questo 12 settembre e penso che manca una settimana esatta ai miei vent’anni. 
Un gatto bianco mi passa davanti nel cortile e si ferma a guardarmi e mi tornano in mente i film di kusturica e le tradizioni zingare della mia bisnonna. La buona sorte arriva sempre di notte, lungo la coda di un gatto bianco, mi diceva lei, ancora pochi istanti prima di morire. Mi sento al sicuro e neanche i rumori della notte mi spaventano più. Penso a tante persone, a tante cose, penso a lui, che tra poche ore si sveglierà e leggerà il mio messaggio, immagino l’espressione del suo viso e io scompaio un po’, come quando siamo insieme e mi sembra quasi di non esistere più.
Penso ai miei amici alle loro tragedie, alle loro paure, che ormai son diventate parte anche di me e, in me, son diventate armonia. Mi vien da piangere come quando guardo un film con mia madre e, ad un tratto, quasi simultaneamente, le lacrime cominciano a scivolare sui visi di entrambe, e mi sento immensamente simile a lei.
Se fossi una fotografa o una pittrice immortalerei per sempre con un’immagine, questo momento per portarlo sempre con me, come promemoria di quanto la vita, a tratti, possa esser bella. 
Invece mi ritrovo alle prese con la tastiera qwerty di un iPhone ormai distrutto, che la penna è troppo lontana e la luce troppo flebile perché l’inchiostro possa danzare sul foglio, a cercare le parole adatte, a descrivere il momento in tutto il suo splendore.

domenica 11 settembre 2011

Agosto è avere vent'anni e tanto freddo nel cuore
Agosto, la notte, son lacrime e abbracci
Agosto e le sigarette fumate a metà
Per tutte le persone che ci siam lasciati indietro.
Agosto son polsi ricuciti e cenere sui balconi.
Agosto son fiumi in secca e sorrisi fotografati
Agosto son baguette a Notre Dame e falafel torinesi
Agosto è un "ti voglio bene" che fa paura
Agosto son le luci di una piazza alle 21,30
Agosto son cuori disegnati con le dita sui finestrini dei treni
Agosto son baci al lago e abbracci in montagna
Agosto è la casa vuota e tanta voglia di riempirla
Agosto son tutte le mie paure
Agosto son le persone a cui voglio bene e quelle a cui ne ho voluto
Agosto e tutti che partono e io che resto sola
Agosto che dura una vita intera.

giovedì 8 settembre 2011

Dicono dei sentimenti che siano simili ai fiori

Forse dovrei semplicemente smettere di passare parte delle mie giornate a leggere blog altrui, così almeno non mi renderei più conto di quanto mi manchi scrivere e di quanto, forse, mi manchi anche star male. Che per me del resto la scrittura non è mai stata altro se non una conseguenza dei miei stati d’animo più bui e l’assenza di felicità, perché infelicità è una parola troppo grossa, si sa, da dipendenza. Adesso però dovrei pensare solamente ad essere serena ed effettivamente è così, che quando ripenso a certi momenti insieme, a certi tuoi sorrisi mi sembra ancora tutto incredibilmente irreale e non posso far altro che essere felice, un po’ come quando la notte stringo forte la tua maglietta e mi vien da piangere, ma son lacrime dolci perché mi sembra di averti ancora vicino. Poi però arriva il mercoledì sera che è sempre il momento peggiore e vorrei cancellarlo dal calendario, forse perché è passato troppo tempo dall’ultima volta che ti ho visto e manca ancora troppo tempo prima che ti possa riabbracciare di nuovo. E allora immagino che esistano dei sentimenti in grado di annullare le distanze e di far scomparire le paure, sentimenti in grado di cancellare il passato e di costruire un presente più luminoso. Però non sono ancora certa che esistano davvero sentimenti così , allora disegno un filo invisibile e lunghissimo che leghi il tuo cuore al mio e che non si possa spezzare, così ti sento un po’ più vicino ed è come averti sempre accanto, che ogni volta che in stazione ci diamo l’arrivederci mi sembra di perdere una parte di me e di te contemporaneamente. Poi mi dicono che le distanze siano una cosa bellissima, perché ti fanno capire quanto le persone siano importanti per te e ripenso a quando mi hai detto che per un po’ avresti smesso di fumare perché se passi tanto tempo senza fare qualcosa, quando ricominci ti sembra ancora più piacevole e allora mi convinco che sia la stessa cosa anche per noi due e che la distanza forse ci faccia bene davvero. Intanto aspetto che finisca settembre, che è un mese orribile e tutte le volte che ripenso al mio tatuaggio mi sembra sempre più reale, come una profezia che, di anno in anno, continua ad avverarsi, quest’anno in particolar modo, un po’ per la nostalgia delle persone che ho perso o che ho lasciato indietro, che di tanto in tanto torna a farsi sentire, perché del resto umana lo sono anch’io, un po’ per la mia salute, che ormai è un caso disperato e che mi obbliga, o almeno tenta di farlo, ad allontanarmi da cose che amo. Ancor di più perché attendo quasi disperatamente ottobre, che porta con se tutte le mie speranze, i miei desideri e, perché no, anche i miei timori. Ottobre cancellerà le attese, i mercoledì sera di lacrime e i saluti che mi straziano il cuore alla stazione. Ottobre forse mi regalerà i miei cinque minuti di felicità quotidiana. Che poi mi lamento sempre e il perché non me lo spiego neanch’io, forse semplicemente mi piace essere compatita, ma in questo momento non c’è proprio nulla che mi manchi, forse solo un treno superveloce, o qualsiasi altro mezzo di trasporto, che mi porti da te tutte le volte che ne ho bisogno. O che ne hai bisogno tu. Per quanto riguarda il resto, sono circondata da persone che mi amano, ho la possibilità di ricominciare una nuova vita tra meno di un mese e, soprattutto, ho te. E questo mi basta. Sono una persona felice. Lo sono davvero. Lo sono tutte le volte che ti ho accanto.

domenica 10 luglio 2011

Ogni cosa è illuminata, bastano solo buona musica, la compagnia giusta e un po' di alcohol

Esistono concerti e concerti. Ci sono quelli che, dopo poche canzoni, ti fanno venir voglia di prendere e andartene e l’unica cosa che ti trattiene sono i soldi spesi per il biglietto e quelli che vorresti non finissero mai, quelli per i quali nutrivi grandi aspettative e che invece ti deludono e quelli che ti mettono addosso un’energia che neanche tu credevi di avere e che ti fanno cantare e ballare per tutta la notte e i giorni seguenti, quelli ai quali ti ci ritrovi un po’ per caso e quelli che aspetti da una vita, sette anni, nel mio caso.
Quando qualcuno mi chiedeva quale band avrei preferito vedere in concerto io rispondevo senza alcun dubbio: “Gogol Bordello”, non solamente per una questione musicale, ma per l’energia e la passione che ero convinta mettessero in ogni loro live.
Qualche mese fa ho scoperto che a luglio avrebbero suonato a Milano, a due passi (si fa per dire) da casa mia, peraltro al Magnolia, uno dei locali ai quali sono più affezionata, nonostante l’acustica che lascia alquanto desiderare. Il giorno dopo io e i miei amici ci siamo catapultati ad acquistare i biglietti senza pensarci due volte.
Per quattro mesi ho fissato ogni giorno quel biglietto, con tanta felicità e altrettanta paura. “E se poi rimango delusa?” Mi domandavo tutte le volte. I Gogol Bordello sono stati senza dubbio uno dei gruppi artefici della mia formazione musicale, al pari di mostri sacri, come, per citarne uno, i Clash. Quando iniziai ad ascoltarli avevo tredici anni e non sapevo riconoscere una chitarra da un basso. E’ stato anche grazie a loro se oggi di musica ci vivo e non avrei potuto sopportare la delusione di un concerto non pari alle mie aspettative.
Al sette luglio, giorno X, manca esattamente una settimana e io decido di prendere baracca e burattini e andare in un posto sperduto in mezzo ai monti a sentire i Devotchka: band americana semisconosciuta che, proprio come i Gogol Bordello, ma in modo molto più soft, unisce musica rock a sonorità che arrivano direttamente dall’est Europa. A concerto finito ero demoralizzata dall’idea che non avrei mai ascoltato mai più niente del genere: un live assolutamente perfetto, musicisti straordinari e un’atmosfera surreale.
A quel punto il mio entusiasmo per i Gogol Bordello stava via via scemando e, se non fosse stato per il fatto che con me sarebbero venuti quasi tutti i miei amici e che in un modo o nell’altro il divertimento sarebbe stato assicurato, sarebbe del tutto scomparso.
La mattina del 7 luglio mi sono svegliata tardi e, con i postumi di una notte quasi del tutto insonne che gravavano sul mio abituale mal di testa, ho fatto una doccia al volo, ho messo nella borsa tutto il necessario e alle 13,40 ero già in stazione, dove ho incontrato il gruppo di amici, conoscenti e semisconosciuti, che mi avrebbe tenuto compagnia per tutto il giorno.
Arrivati a Milano un’ora dopo, è iniziata la solita trafila di metro, bus cittadini e navette aeroportuali per arrivare al Magnolia e alle 4 del pomeriggio eravamo già davanti all’idroscalo. Spinti da una ricerca spasmodica di acqua potabile, ci siamo furtivamente, ma neanche troppo, introdotti al Magnolia dove, con gran sorpresa di tutti noi, stavano provando i Gogol Bordello. In quel momento e per le ore successive il mio atteggiamento è stato quello del fingere gioia più che altro per adattarmi all’umore dei miei compagni di viaggio, mentre in cuor mio pensavo: “Bene, ho già sentito metà scaletta, adesso posso prendere e tonarmene a casa”.
Dalle 4 alle 7, orario di apertura dei cancelli, l’attesa e stata lunga e ne abbiamo approfittato per riposarci un po’ sull’erba dell’idroscalo e per farci dissanguare dalle innumerevoli zanzare.
Quando ci siamo avvicinati all’ingresso del locale per prepararci ad entrare, con più di un’ora d’anticipo, abbiamo trovato un numero ridotto di persone che, come noi, aspettavano l’apertura. A quel punto l’ansia è cominciata a salire: in sei anni di concerti (sì, ho iniziato presto) sono sempre stata in prima fila e, anche questa volta, non avrei permesso a nessuno, a costo di rimetterci ancora una volta le ossa, di rubarmi il mio posto d’onore.
All’apertura dei cancelli, dopo aver superato la perquisizione di routine, che da sempre mi fa sentire immotivatamente sospetta, mi sono fiondata davanti al palco, conquistando il posto tanto agognato, che da lì in poi non avrei ceduto per nulla al mondo. Da quel momento la birra ha iniziato a scorrere a fiumi nella mia gola, concedendomi quel tanto di allegria che, ad un concerto è sempre gradita.
Poco dopo, quando il locale era ancora mezzo vuoto, proprio nel mezzo di un coinvolgente discorso con un’amica, ho notato una decina di persone raggruppate attorno ad un individuo in maglietta gialla e capelli lunghi e spettinati. Non ci ho fatto caso e sono tranquillamente tornata a parlare. Nel giro di 30 secondi ho realizzato che quell’individuo in realtà era niente meno che Eugene Hutz, leader dei Gogol Bordello per il quale, vabbè, i miei ormoni impazziscono dalla prima volta che ascoltai “Start wear in purple”.
Così io e tutti gli altri ci siam gettati in una corsa folle per raggiungerlo, spintonando persone a caso. Arrivata davanti a lui mi sono ritrovata in uno stato di semi afasia che non ha permesso alle mie corde vocali di produrre più di un semplice “Hi!”. A molti dei concerti ai quali io abbia assistito ho trovato il modo di intrufolarmi nel backstage e scambiare due parole con le band, talvolta a farmi addirittura offrire da bere, ma mai mi era capitato di perdere la capacità di parola. Notando il mio imbarazzo Eugene ha compiuto il gesto che ha sciolto il mio cuore, permettendomi all’istante di eleggerlo uomo della mia vita: senza che io osassi fare un passo verso di lui, si è avvicinato di sua sponte e mia ha abbracciata. Dopo di che è stata scattata la classica foto ricordo, ringraziamenti vari e così via.
Ora, tra i gruppi che ascolto e che amo, i Gogol Bordello, sono senza dubbio tra i più conosciuti, basta notare il numero di persone che nelle ore successive ha riempito il Magnolia, proprio per questo sono rimasta colpita dalla cordialità e dall’entusiasmo con cui un uomo di 39 anni, famoso in tutto il mondo, che suona da prima che io nascessi e che è impegnato da più di un anno in uno di quei tour che di riposo ne lasciano ben poco, abbia accolto il suo pubblico, non mostrando il minimo atteggiamento di superiorità nei nostri confronti. A molti sembrerà poco, ma io di gruppetti dalla scarsa attitudine musicale, convinti di essere i migliori al mondo e che in ogni gesto ti fanno notare di essere migliori di te, ne ho visti fin troppi.
Da quel momento in poi, il concerto si sarebbe potuto rivelare anche il peggiore della mia vita, ma il mio cuore sarebbe appartenuto ugualmente per sempre ai Gogol Bordello e in particolar modo a Eugene Hutz.
Le ore sono passate velocemente, l’entusiasmo è salito alle stelle toccando picchi insperati, il portafogli si è svuotato e la birra ha continuato a scorrere. Altre tre band hanno suonato, senza che io prestassi loro troppa attenzione o lasciassi il mio posto e sono arrivate le 22, qualche minuto per provare gli strumenti e i primi membri della band sono saliti sul palco. La folla era aumentata in modo impressionante e cominciavano ad arrivare i primi colpi alla schiena.
All’ingresso di Eguene sul palco, alla prima sillaba prodotta dalla sua voce, il pubblico si è scaldato e il pogo si è fatto più intenso, ma potevo ancora conservare lo spazio necessario per respirare e quasi per ballare.
Prima che finisse la prima canzone, “Tribal connection”, alcune persone si erano già sentite male e avevano abbandonato le loro postazione aiutate dai membri della sicurezza. Io ovviamente resistevo, lottando a pedate e gomitate contro chi da dietro mi tirava, cercando di accaparrarsi il mio posto.
In due ore di concerto, la band è riuscita a travolgere di energia il pubblico, irradiandoci di passione e voglia di vivere, tra fanfare scanzonate, sonorità esteuropee e ritmi punk.
Il pogo intanto era diventato insopportabile, la maggior parte dei miei amici erano stati travolti dalla folla e finiti diverse file indietro, ma io restavo ancorata alle transenne, consapevole del fatto che le mie ossa avrebbero ceduto prima del mio spirito (ed erano veramente sul punto di farlo).
Quando è stata il momento di suonare “Start wearing purple” ho trattenuto a stento la commozione, ricordando quando a 13 anni, entusiasta, la facevo ascoltare a tutti, nella speranza che qualcuno la apprezzasse quanto me.
Il live è stato pieno di momenti fantastici, canzoni come “Wonderlust King”, “Not a crime” e “Immigraniada”, sono state epiche e mi hanno fatta cantare a squarciagola. “Pala tute”, con il suo ritmo tzigano, è stata una piacevole sorpresa: mille volte migliore in versione live piuttosto che su disco.
“When the universes collide” la conoscevamo in pochi, ma è a parer mio il pezzo migliore di “Transcontinental Hustle”, molto toccante anche dal vivo.
“Santa Marinella” è stata un’esplosione e per la prima volta in vita mia, bestemmiando in pubblico, non mi sono ritrovata tutti gli occhi puntati addosso.
Originali le cover di Celentano e l’inno della Dinamo Kiev, squadra del cuore di Eugene, a riprova del fatto che puoi essere una persona intelligente e affascinante pur apprezzando il calcio.
Durante questo live ho rivalutato anche la figura di Pedro, percussionista, corista, che nella formazione ha sostituito la ballerina Pamela Racine, e che ho sempre considerato piuttosto inutile. In realtà la sua si è rivelata una presenza, non indispensabile, ma quantomeno simpatica.
Un unico istante demoralizzante ha spezzato il mio povero cuore: il caro Eugene ha portato con se sul palco una ragazza presa direttamente dal pubblico e, dopo averle fatto reggere il microfono (no, non è un doppio senso) mentre eseguiva “Alcohol”, ha ben pensato di limonarsela selvaggiamente dinnanzi a tutti. Io nel frattempo ho desiderato la morte mia, di Eugene e della tipa, ma mi sono ripresa in fretta.
Il momento che, inspiegabilmente, mi ha emozionata di più è stata la fine del concerto, mentre la band stava salutando il pubblico e dagli amplificatori si è diffusa una musica che ho riconosciuto dalla prima nota: “Redemption song” di Bob Marley, nella versione di Joe Strummer. Per tutta la durata della canzone Eugene è rimasto sul palco, facendoci cantare in coro e cantando a sua volta con noi. E’ difficile spiegare perché fossi tanto commossa, ma quel pezzo ha significato molto per me, le sue note mi hanno riportato alla mente episodi, persone, oggetti che avevo dimenticato da tempo, mi hanno fatto ricordare Joe Strummer, la cui voce mi ha tenuto compagnia per tante notti in tanti anni.
Insomma, dopo due ore di concerto, avrei voluto andassero avanti a suonare ancora per tutta la notte, avrei voluto cantare e ballare ancora con loro e con le altre mille persone del pubblico, perché in certi momenti, si sa, nonostante le botte e gli spintoni, si è tutti un po’ fratelli.
A seguire c’è stato un djset niente male, che è durato fino alle 2,30 del mattino, quando ci hanno invitati ad uscire dal locale e noi, con la testa tra le nuvole e il cuore ancora sul palco, ci siamo incamminati verso l’aeroporto di Linate ad aspettare il primo bus che ci avrebbe portati in stazione e di lì finalmente a casa.
Questa non è una recensione vera e propria, è piuttosto il racconto di un concerto, di una giornata, di una compagnia di amici, di un viaggio che è anche un po’ un’avventura. Questo è un ringraziamento a gruppi come i Gogol Bordello, ma è per me doveroso citare anche i Devotchka, che in un epoca di disinteresse e insoddisfazione generale come la nostra, riescono a divertirsi e a far divertire, a trasmetterti passione e anche solo per una notte voglia di vivere, che ti fanno capire che in certi momenti il mondo non è poi così brutto come sembra.

giovedì 19 maggio 2011

Incontrare gente seduta su una panchina, ascoltando musica francese e fumando una Winston Blue, mentre anche gli alberi mi sussurrano che il mio pensiero sei ancora tu.

martedì 12 aprile 2011

L'amore a vent'anni

Ogni mattina c’è un binario che muore
Solo come i miei sentimenti,
Quando mi saluti e te ne vai.
E’ una poesia mal digerita,
E’ una poesia, come veleno, sputata,
E’ l’amore a vent’anni.
Il sole che tramonta dietro la stazione
Con la mia voglia di dirti che
Sull’orlo del nulla il mio pensiero eri tu.
Nei polsi, pulsante,
Come una vena dolorosa,
Ancora scorri,
Quando anche le nuvole piangono
E le loro lacrime sanno di te.

giovedì 3 marzo 2011

Ricostruzione

Il vento come respiro sul volto
Il freddo graffia la pelle,
è lama affilata.
Negli occhi un ricordo svanisce,
Come la notte, dietro le montagne tramonta.
Libera la mente, cancella i pensieri
Il passato è alle spalle,
Il presente è mai più.
E' vita nuova,
E' vita serena,
E' un regalo ancora da scartare.
Per esistere non lotto più,
Calma mi stendo sull'acqua,
Mi lascio trasportare.
Distese infinite che non vedrò
Gli occhi son chiusi,
La luce mi accieca,
Solo l'immaginazione
E' la speranza di chi forze non ha.
La mia prigione non ha sbarre,
Nell'anima la gabbia,
Fredda e impenetrabile,
Della mia rovina.
Tra le dita pezzi di un'esistenza,
La mia, rotta e più volte aggiustata,
che corpo non ha più.
Ricostruzione, rinascita, vita
Parole impalpabili,
Lettere che nella mente creano frasi.
Domani sarò io, senza più me,
Un volto senza nome,
Una figura senza corpo,
Una persona senza passato.

giovedì 3 febbraio 2011

Scriveranno di me
Tra le pagine che si riempiranno
Con lo scorrere dei giorni
Di sentimenti, morti come foglie,
Quando anche l'estate,
Come abiti vecchi,
Miseramente, ci abbandona.
Parleranno di me
Nelle notti insonni
Che tanto spesso frequento.
Disegneranno i miei occhi
Per poterli guardare
Una volta ancora.
Io così scivolerò via,
Lontana dalla memoria,
Sbiadita da mille lacrime,
Troppo tardi versate.
Scrivimi parole di non amore
Sussurramele piano
Poi dimmi che a me non ci pensi più
Dedicami una canzone che non mi piace
Ed io ti dirò che tua non lo sarò mai.

Rimpianto

R-aggi di sole da tempo
I-l mio volto pallido non toccano più
M-orire ogni giorno
P-ensando ai tuoi occhi
I-lluminarsi alla vista di lei
A-bbracciarsi ad un ricordo
N-aturalmente fragile
T-remendamente lontano
O-gni volta il mio dolore sei tu