mercoledì 16 novembre 2011

Con le mani nei capelli. Con le nuvole negli occhi.


Dicono che fuori faccia freddo, che sia arrivato l’inverno. Io ci credo, immagino il gelo sulla pelle, le labbra tagliate, il viso screpolato. Due giorni che non esco di casa e sembra una vita intera. Ansia, pianti, mal di stomaco, nausea. Tutto passa. Tutto. Passa. Passa in un attimo, con il sorriso inaspettato di uno sconosciuto, con una parola gentile, con un messaggio da incidere nel cuore, che tanto siamo la generazione degli sms e non ci posso far nulla.
E io intanto disegno, disegno ed era troppo tempo che non prendevo in mano un matita. Disegno me stessa in mille modi, che ognuno a modo suo è un po’ egocentrico-narcisista e io una Reflex non ce l’ho. Allora disegno. E ogni tanto mi piace anche quello che esce fuori, sempre perché sono un’egocentrica-narcisista.
Oggi non ho paralato con nessuno. Ho comunicato, che è diverso, ma non ho sentito la voce di nessuno, al di fuori di mia madre e della tizia del reparto di chirurgia vascolare che mi ha chiamata per sapere se mio zio si ricordasse che domani alle 8 deve presentarsi in ospedale. Mi domando perché non abbia telefonato a lui.
Mio zio in questo caso è il fratello di mia nonna. Si chiama S. e vive nel paese in cui sono cresciuta, a pochi chilometri da Novara, ma quasi mi sembra di non conoscerlo. E’ una sensazione che provo nei confronti di tutta (o quasi) la mia famiglia. Ci telefoniamo una volta al mese, ci facciamo gli auguri di Natale, ci dimentichiamo dei rispettivi compleanni, fingiamo di volerci bene, punto. Punto.
Tutto ciò mi ha sempre messo tristezza, fin da quando ero bambina e la mia famiglia mi sembrava così diversa dalle famiglie dei film, quelli che fanno a Natale, dove tutti sono bellissimi e felici. Io mi sento un po’ come Colin Firth in Love Actually (dio, quanto l’ho amato quel film), che passa il Natale in famiglia solo per abitudine, per tradizione o per convenzione, chiamatela come volete, con i nipotini che appena lo vedono dicono: “Io lo odio lo zio Jamie”, e poi decide di partire e di mandare tutti a quel paese. Ecco, io mi sento un po’ come lo zio Jamie, non perché parta mandando tutti a quel paese (anche se a volte vorrei tanto poterlo fare), neanche perché tutti mi odino (o almeno spero), semplicemente perché mi sento inutile, superflua, non partecipo alla gioia comune, non interagisco durante i discorsi degli “adulti” perché mi sento ancora bambina e quindi non autorizzata a prender parte alle discussioni serie dei grandi.
Ma al Natale manca ancora più di un mese, quindi lasciamolo da parte, anche se io non riesco a ricordare cosa avessi intenzione di raccontare quando ho iniziato a scrivere. Che poi a dire il vero non c’è mai nulla di preciso che io voglia raccontare, tutto nasce da singole frasi e poi, il resto, si articola, prende vita intorno ad esse. Ma io sono caotica in tutto e non posso farci nulla.
Forse è perché io, il caos che domina l’esistenza, lo avverto costantemente e ne divento parte in ogni istante, con ogni atomo del mio corpo, con la confusione di ogni mio pensiero. Sarà così.
E ho in mente una frase bellissima, ma la terrò da parte per la prossima volta, la renderò perfetta, le ricamerò intorno parole appropriate e darò vita a qualcosa che ancora non conosco.

Intanto ci sarà il mare.

Intanto c’è L.

Intanto ci sono tutti gli altri.

Intanto ci sono io.

Con le mani nei capelli.

Con le nuvole negli occhi.

lunedì 7 novembre 2011

La geometria perfetta di notti senza fine

Piove da 5 giorni. Senza tregua. 
L’aria grigia avvolge tutto e scorrono via i volti, le vite, le città. Che la giovinezza è sentirsi soli e poi correre verso il mare come Antoine Doinel. Il gioco sta nel trovare il proprio mare. Le braccia spalancate, i corpi caldi, i letti disfatti, le stanze tiepide, che spazzano via i sorrisi tristi.
Un anno e mezzo e io ho dimenticato i cuscini bagnati e il sangue che scorre. Senza rancore. Senza amarezza. È scivolato tutto, via lontano, in una notte d’agosto. La notte dei pianti e degli abbracci senza fine. Sei agosto. Cinque persone. Quattro amanti. Tre vite. Due corpi. Una casa. Confusione. 
Amicizie interrotte. Anime spezzate. Anime ricostruite. Storie raccontate.
Momenti che bruciano e che non si possono, non si vogliono dimenticare, perché dal dolore prende vita la bellezza. Il dolore vissuto, che resta dentro, rannicchiato in fondo al cuore, crea la meraviglia di due vite che si incontrano, due passati che si avvicinano, due futuri che si uniscono. E restano gli altri, un po’ sconfitti e un po’ ignari spettatori di spettacoli meravigliosi e incomprensibili. È la retorica della bellezza, la grandiosità del caos, che non genera mostri, ma esseri perfetti, che hanno percorso sentieri affini e che finalmente si incontrano, all’infinito, come rette parallele. La geometria dell’esistenza. Il sonno eterno del mal di vivere.

Questa non è l'America

Uscire di casa senza sciarpa, quando fuori fa freddo, mi fa sentire vulnerabile. Dentro una sciarpa mi posso riparare dal gelo, ma mi posso anche un po’ nascondere.
Uscire di casa senza sciarpa fa iniziare male le mie giornate.
Il tutto peggiora quando arrivo in stazione e scopro che il mio treno è in ritardo di 60 (sessanta!) minuti. 60 minuti che mi separano da te, che mi stai aspettando avvolto in un cappotto che non ho mai visto, con i tuoi sorrisi e una sciarpa che hai portato apposta per me e che mi fa sentire invincibile.
Poi ci sono la pioggia, il vento, Artissima  e un mondo nuovo, da scoprire, per noi due.
Mi sento serena e lo notano tutti, anche la psicanalista che si commuove a vedermi così. Sono tanto serena che non mi interessano più le persone che, alla fine, la mia attenzione non la meritano.
Le guerre telematiche sono infantili e non hanno senso, lo dici anche tu, per quanto certe persone abbiano ferito chi amo e vorrei proteggere con tutta me stessa.
Sono patetica.
Forse.
Sono immatura.
Non ho mai affermato il contrario.
Sono felice.
Senza dubbio.
E’ l’una di notte e vago per la stanza con gli stivali nuovi, che fanno un rumore meraviglioso. Io scelgo le scarpe in base al rumore che fanno quando cammino. Forse è un modo tutto mio per farmi notare, che poi non ne ho bisogno, perché le attenzioni di chi mi interessa le ho già.
Domattina mi alzerò presto, che ho promesso ai miei di andare sul Monferrato con loro. La collina mi da un senso di pace. Ascolterò i Mumford and Sons durante il viaggio, che non esiste colonna sonora migliore.
Dovrei anche mandarti il messaggio della buonanotte, anche se sei con i tuoi amici, mentre io i miei li ho già salutati da un pezzo, ponendo fine troppo presto a una bella serata.
E piove.
Piove.
Piove.
Ed è bello in un modo strano.
Portami a vivere in un posto dove piova sempre e possiamo passare le nostre giornate sotto le coperte senza far nulla, che le mostre d’arte, i libri e la musica ce li inventiamo noi e non abbiamo bisogno di nulla.
Quando siamo insieme siamo stupidi perché stiamo bene e per un po’ possiamo dimenticare il dolore. Possiamo riderne. Possiamo scherzare senza pensare a ciò che fa male, perché, quando sono con te, niente fa male veramente.
Le stazioni le odio, che i binari nascondono sempre milioni di lacrime e i treni portano con sè gli addii. E quando arrivo a Novara e inizio a scorgere in successione unieuro-stadio-carrefour-viamarconi-sottopassaggio, non so mai se son contenta di essere finalmente a casa o se invece vorrei tornare indietro, sperando che ad aspettarmi ci sia ancora una volta tu.
D’altronde questa non è l’America.