domenica 10 luglio 2011

Ogni cosa è illuminata, bastano solo buona musica, la compagnia giusta e un po' di alcohol

Esistono concerti e concerti. Ci sono quelli che, dopo poche canzoni, ti fanno venir voglia di prendere e andartene e l’unica cosa che ti trattiene sono i soldi spesi per il biglietto e quelli che vorresti non finissero mai, quelli per i quali nutrivi grandi aspettative e che invece ti deludono e quelli che ti mettono addosso un’energia che neanche tu credevi di avere e che ti fanno cantare e ballare per tutta la notte e i giorni seguenti, quelli ai quali ti ci ritrovi un po’ per caso e quelli che aspetti da una vita, sette anni, nel mio caso.
Quando qualcuno mi chiedeva quale band avrei preferito vedere in concerto io rispondevo senza alcun dubbio: “Gogol Bordello”, non solamente per una questione musicale, ma per l’energia e la passione che ero convinta mettessero in ogni loro live.
Qualche mese fa ho scoperto che a luglio avrebbero suonato a Milano, a due passi (si fa per dire) da casa mia, peraltro al Magnolia, uno dei locali ai quali sono più affezionata, nonostante l’acustica che lascia alquanto desiderare. Il giorno dopo io e i miei amici ci siamo catapultati ad acquistare i biglietti senza pensarci due volte.
Per quattro mesi ho fissato ogni giorno quel biglietto, con tanta felicità e altrettanta paura. “E se poi rimango delusa?” Mi domandavo tutte le volte. I Gogol Bordello sono stati senza dubbio uno dei gruppi artefici della mia formazione musicale, al pari di mostri sacri, come, per citarne uno, i Clash. Quando iniziai ad ascoltarli avevo tredici anni e non sapevo riconoscere una chitarra da un basso. E’ stato anche grazie a loro se oggi di musica ci vivo e non avrei potuto sopportare la delusione di un concerto non pari alle mie aspettative.
Al sette luglio, giorno X, manca esattamente una settimana e io decido di prendere baracca e burattini e andare in un posto sperduto in mezzo ai monti a sentire i Devotchka: band americana semisconosciuta che, proprio come i Gogol Bordello, ma in modo molto più soft, unisce musica rock a sonorità che arrivano direttamente dall’est Europa. A concerto finito ero demoralizzata dall’idea che non avrei mai ascoltato mai più niente del genere: un live assolutamente perfetto, musicisti straordinari e un’atmosfera surreale.
A quel punto il mio entusiasmo per i Gogol Bordello stava via via scemando e, se non fosse stato per il fatto che con me sarebbero venuti quasi tutti i miei amici e che in un modo o nell’altro il divertimento sarebbe stato assicurato, sarebbe del tutto scomparso.
La mattina del 7 luglio mi sono svegliata tardi e, con i postumi di una notte quasi del tutto insonne che gravavano sul mio abituale mal di testa, ho fatto una doccia al volo, ho messo nella borsa tutto il necessario e alle 13,40 ero già in stazione, dove ho incontrato il gruppo di amici, conoscenti e semisconosciuti, che mi avrebbe tenuto compagnia per tutto il giorno.
Arrivati a Milano un’ora dopo, è iniziata la solita trafila di metro, bus cittadini e navette aeroportuali per arrivare al Magnolia e alle 4 del pomeriggio eravamo già davanti all’idroscalo. Spinti da una ricerca spasmodica di acqua potabile, ci siamo furtivamente, ma neanche troppo, introdotti al Magnolia dove, con gran sorpresa di tutti noi, stavano provando i Gogol Bordello. In quel momento e per le ore successive il mio atteggiamento è stato quello del fingere gioia più che altro per adattarmi all’umore dei miei compagni di viaggio, mentre in cuor mio pensavo: “Bene, ho già sentito metà scaletta, adesso posso prendere e tonarmene a casa”.
Dalle 4 alle 7, orario di apertura dei cancelli, l’attesa e stata lunga e ne abbiamo approfittato per riposarci un po’ sull’erba dell’idroscalo e per farci dissanguare dalle innumerevoli zanzare.
Quando ci siamo avvicinati all’ingresso del locale per prepararci ad entrare, con più di un’ora d’anticipo, abbiamo trovato un numero ridotto di persone che, come noi, aspettavano l’apertura. A quel punto l’ansia è cominciata a salire: in sei anni di concerti (sì, ho iniziato presto) sono sempre stata in prima fila e, anche questa volta, non avrei permesso a nessuno, a costo di rimetterci ancora una volta le ossa, di rubarmi il mio posto d’onore.
All’apertura dei cancelli, dopo aver superato la perquisizione di routine, che da sempre mi fa sentire immotivatamente sospetta, mi sono fiondata davanti al palco, conquistando il posto tanto agognato, che da lì in poi non avrei ceduto per nulla al mondo. Da quel momento la birra ha iniziato a scorrere a fiumi nella mia gola, concedendomi quel tanto di allegria che, ad un concerto è sempre gradita.
Poco dopo, quando il locale era ancora mezzo vuoto, proprio nel mezzo di un coinvolgente discorso con un’amica, ho notato una decina di persone raggruppate attorno ad un individuo in maglietta gialla e capelli lunghi e spettinati. Non ci ho fatto caso e sono tranquillamente tornata a parlare. Nel giro di 30 secondi ho realizzato che quell’individuo in realtà era niente meno che Eugene Hutz, leader dei Gogol Bordello per il quale, vabbè, i miei ormoni impazziscono dalla prima volta che ascoltai “Start wear in purple”.
Così io e tutti gli altri ci siam gettati in una corsa folle per raggiungerlo, spintonando persone a caso. Arrivata davanti a lui mi sono ritrovata in uno stato di semi afasia che non ha permesso alle mie corde vocali di produrre più di un semplice “Hi!”. A molti dei concerti ai quali io abbia assistito ho trovato il modo di intrufolarmi nel backstage e scambiare due parole con le band, talvolta a farmi addirittura offrire da bere, ma mai mi era capitato di perdere la capacità di parola. Notando il mio imbarazzo Eugene ha compiuto il gesto che ha sciolto il mio cuore, permettendomi all’istante di eleggerlo uomo della mia vita: senza che io osassi fare un passo verso di lui, si è avvicinato di sua sponte e mia ha abbracciata. Dopo di che è stata scattata la classica foto ricordo, ringraziamenti vari e così via.
Ora, tra i gruppi che ascolto e che amo, i Gogol Bordello, sono senza dubbio tra i più conosciuti, basta notare il numero di persone che nelle ore successive ha riempito il Magnolia, proprio per questo sono rimasta colpita dalla cordialità e dall’entusiasmo con cui un uomo di 39 anni, famoso in tutto il mondo, che suona da prima che io nascessi e che è impegnato da più di un anno in uno di quei tour che di riposo ne lasciano ben poco, abbia accolto il suo pubblico, non mostrando il minimo atteggiamento di superiorità nei nostri confronti. A molti sembrerà poco, ma io di gruppetti dalla scarsa attitudine musicale, convinti di essere i migliori al mondo e che in ogni gesto ti fanno notare di essere migliori di te, ne ho visti fin troppi.
Da quel momento in poi, il concerto si sarebbe potuto rivelare anche il peggiore della mia vita, ma il mio cuore sarebbe appartenuto ugualmente per sempre ai Gogol Bordello e in particolar modo a Eugene Hutz.
Le ore sono passate velocemente, l’entusiasmo è salito alle stelle toccando picchi insperati, il portafogli si è svuotato e la birra ha continuato a scorrere. Altre tre band hanno suonato, senza che io prestassi loro troppa attenzione o lasciassi il mio posto e sono arrivate le 22, qualche minuto per provare gli strumenti e i primi membri della band sono saliti sul palco. La folla era aumentata in modo impressionante e cominciavano ad arrivare i primi colpi alla schiena.
All’ingresso di Eguene sul palco, alla prima sillaba prodotta dalla sua voce, il pubblico si è scaldato e il pogo si è fatto più intenso, ma potevo ancora conservare lo spazio necessario per respirare e quasi per ballare.
Prima che finisse la prima canzone, “Tribal connection”, alcune persone si erano già sentite male e avevano abbandonato le loro postazione aiutate dai membri della sicurezza. Io ovviamente resistevo, lottando a pedate e gomitate contro chi da dietro mi tirava, cercando di accaparrarsi il mio posto.
In due ore di concerto, la band è riuscita a travolgere di energia il pubblico, irradiandoci di passione e voglia di vivere, tra fanfare scanzonate, sonorità esteuropee e ritmi punk.
Il pogo intanto era diventato insopportabile, la maggior parte dei miei amici erano stati travolti dalla folla e finiti diverse file indietro, ma io restavo ancorata alle transenne, consapevole del fatto che le mie ossa avrebbero ceduto prima del mio spirito (ed erano veramente sul punto di farlo).
Quando è stata il momento di suonare “Start wearing purple” ho trattenuto a stento la commozione, ricordando quando a 13 anni, entusiasta, la facevo ascoltare a tutti, nella speranza che qualcuno la apprezzasse quanto me.
Il live è stato pieno di momenti fantastici, canzoni come “Wonderlust King”, “Not a crime” e “Immigraniada”, sono state epiche e mi hanno fatta cantare a squarciagola. “Pala tute”, con il suo ritmo tzigano, è stata una piacevole sorpresa: mille volte migliore in versione live piuttosto che su disco.
“When the universes collide” la conoscevamo in pochi, ma è a parer mio il pezzo migliore di “Transcontinental Hustle”, molto toccante anche dal vivo.
“Santa Marinella” è stata un’esplosione e per la prima volta in vita mia, bestemmiando in pubblico, non mi sono ritrovata tutti gli occhi puntati addosso.
Originali le cover di Celentano e l’inno della Dinamo Kiev, squadra del cuore di Eugene, a riprova del fatto che puoi essere una persona intelligente e affascinante pur apprezzando il calcio.
Durante questo live ho rivalutato anche la figura di Pedro, percussionista, corista, che nella formazione ha sostituito la ballerina Pamela Racine, e che ho sempre considerato piuttosto inutile. In realtà la sua si è rivelata una presenza, non indispensabile, ma quantomeno simpatica.
Un unico istante demoralizzante ha spezzato il mio povero cuore: il caro Eugene ha portato con se sul palco una ragazza presa direttamente dal pubblico e, dopo averle fatto reggere il microfono (no, non è un doppio senso) mentre eseguiva “Alcohol”, ha ben pensato di limonarsela selvaggiamente dinnanzi a tutti. Io nel frattempo ho desiderato la morte mia, di Eugene e della tipa, ma mi sono ripresa in fretta.
Il momento che, inspiegabilmente, mi ha emozionata di più è stata la fine del concerto, mentre la band stava salutando il pubblico e dagli amplificatori si è diffusa una musica che ho riconosciuto dalla prima nota: “Redemption song” di Bob Marley, nella versione di Joe Strummer. Per tutta la durata della canzone Eugene è rimasto sul palco, facendoci cantare in coro e cantando a sua volta con noi. E’ difficile spiegare perché fossi tanto commossa, ma quel pezzo ha significato molto per me, le sue note mi hanno riportato alla mente episodi, persone, oggetti che avevo dimenticato da tempo, mi hanno fatto ricordare Joe Strummer, la cui voce mi ha tenuto compagnia per tante notti in tanti anni.
Insomma, dopo due ore di concerto, avrei voluto andassero avanti a suonare ancora per tutta la notte, avrei voluto cantare e ballare ancora con loro e con le altre mille persone del pubblico, perché in certi momenti, si sa, nonostante le botte e gli spintoni, si è tutti un po’ fratelli.
A seguire c’è stato un djset niente male, che è durato fino alle 2,30 del mattino, quando ci hanno invitati ad uscire dal locale e noi, con la testa tra le nuvole e il cuore ancora sul palco, ci siamo incamminati verso l’aeroporto di Linate ad aspettare il primo bus che ci avrebbe portati in stazione e di lì finalmente a casa.
Questa non è una recensione vera e propria, è piuttosto il racconto di un concerto, di una giornata, di una compagnia di amici, di un viaggio che è anche un po’ un’avventura. Questo è un ringraziamento a gruppi come i Gogol Bordello, ma è per me doveroso citare anche i Devotchka, che in un epoca di disinteresse e insoddisfazione generale come la nostra, riescono a divertirsi e a far divertire, a trasmetterti passione e anche solo per una notte voglia di vivere, che ti fanno capire che in certi momenti il mondo non è poi così brutto come sembra.